È una ricerca che si muove per opposizioni, per contrasti, per ossimori, per polarità a cominciare dal titolo Futuro Remoto, una possibilità verbale semanticamente intrigante che apre la linea del tempo verso ciò che è stato e verso ciò che non è ancora. E non solo, predispone anche all’idea che il futuro sia lontano, remoto appunto, difficile da tratteggiare nella sua abissale distanza dal presente.
Da un passato vicino, Pippo Patruno raccoglie, scopre, disvela, una ricca documentazione, inviti d’arte, personali o di amici artisti, o di quanti sono stati coinvolti nella storica galleria Bonomo di Bari, di cui egli stesso ha fatto parte. Luogo elettivo per raccontare il sistema dell’arte degli ultimi cinquant’anni nelle sue più riuscite produzioni, una sorta di hub, collettore e approdo accogliente dei linguaggi contemporanei. Sono personalissime capsule del tempo da consegnare alla posterità, legate da corde che perimetrano identiche geometrie e rimandano a quella modularità che Patruno ha coltivato da sempre nei suoi lavori. Una modularità che è stata al servizio di una pittura circoscritta alla parola, nella sua eccezione di sintesi estrema del senso, una pittura sottratta alla forma e risospinta alla pienezza del suo referente.
In seguito, la sua intensa attività speculativa sul presente e sulla possibilità di coerenti e aggiornate rappresentazioni della contemporaneità, ha escluso naturalmente la pittura, relegandola a linguaggio “remoto”, per l’appunto. Al suo posto è l’installazione, il medium con il quale l’artista visualizza lo scorrere del tempo, gestisce il passato, ne traccia un’ammissibile ricostruzione e rende il singolo documento parte di un mosaico della creatività contemporanea.
Cosa portare nel futuro, si chiede dunque Patruno, se non il distillato sublime della produzione artistica, siglato nella cospicua documentazione di mostre e eventi, ricostruttiva di biografie artistiche illustri? E, allora, procede assorbendo ciò che è stato e ora non è più ma anche ripensando l’ipertrofica conservazione compulsiva, l’accumulo ossessivo per consegnarlo infine a un sistema disciplinato, normato da cumuli regolari. Riviste, dischi, libri, dépliant, a partire dagli anni Settanta, sono compattati non più in seriali e reiterate sequenze ma in colli disomogenei e personalizzati da scritte incise.
Una confusione che ha l’ardimento di non confondere più, dove tutto si trova in una separatezza e singolarità disarmante, precedente a ogni ordine, archivio, catalogo e prima di qualsiasi definizione remota e futura.
– Marilena Di Tursi –
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