Carlo Michele Schirinzi | Suite taciturna

Opening > 26 novembre 2021, ore 17.30
26 – 28 novembre 2021

 

Suite Taciturna si compone di due opere audiovisive dedicate ai propri genitori, sospiro al padre, e milkmo(M)on alla madre.

Si potrebbe dirli, a tutta prima e in parte, “ritratti”. Questo considerando lo spazio consistente dell’inquadratura e di tempo, nell’economia delle rispettive durate (9’40’’ e 11’25’’), che vi occupano i volti nella loro frontalità (forse, una possibile personale declinazione della figurazione bizantina di Puglia, o tardomedievale, le cui suggestioni già serpeggiavano in alcuni lavori precedenti dell’artista). Ritratti, però, a patto che li si intenda anche in una seconda e più decisiva accezione. Quella di “trattosi indietro”, fattosi da parte. Perché coloro che nel dittico è dato vedere, padre e madre, oltre a trovarsi separati nello spazio installativo (e quindi “ritratti” tra loro), essendo proiettati in diversi locali, sono lontani.

E perché, soprattutto, l’intimità della relazione che nell’atto di filmarli si costruisce, nel dittico ci si riconsegna, sì, nella sua intensità; ma è un legame dove noi non siamo. È, appunto, intimo, come inviolabile. E quell’intimità non è meno intensa se promana e riluce da una distanza siderale. In tema di “sidera”, poi, si sa questo: anche di stelle che non sono più – già morte – dalla Terra ci è ancora dato vedere la luce.

Così, quelle figure di padre e madre – ma, come dirò più avanti, “figura” è inappropriato, considerato il lavoro di Schirinzi nel suo complesso – non sono (più) “qui”: sono “filmati”, e filmati per sempre.

Proprio nella loro disgiunzione, paradossalmente, si fa più forte sul piano intellegibile il legame tra gli elementi del dittico. Un ossimoro, volendo, come il titolo Suite taciturna.

Sospiro è immagine e suono di ciò che “esala” da un gesto: l’artista filma, sfoca, annera il proprio padre colto nell’atto di sgranare una melagrana. È un’opera che si sviluppa non tanto “su” quel gesto, quanto “attorno a” esso, come fosse solido perno gravitazionale a uno sguardo invece ondivago, a inquadrature impegnate a ridefinire/slittare i propri margini (il che trova segno più estremo nelle inquadrature fluttuanti della luna, in milkmo(M)on). E disfatti i fuochi. Gassose, altalenanti (ascensioni e declivi, respiro emesso e immesso), cerulee di crepuscolo per contrappunto alla più cupa materia corporea che scrutano, paiono renderla così meno compatta, facendo quindi proprio l’atto di “sgranarla”, fino a far della carne la sua stessa assenza. Sospiro che ne esala, appunto. Ma quanto più ridotto è il campo che se ne inquadra – dettagli, volto – è con ciò stesso magnificata, allo stesso modo del gesto dello sgranare, pur minuto, semplice, splendido di pazienza e intensità. Mani nodose, allora, sfogliate, volto bruno, sembrano a tratti immensi, più che se stessi sebbene siano tutti lì e non altro da se stessi. Come tronco, come rami, con la loro intensità dolorosamente concentrata, raccolta entro le rughe intagliate. Che, intuiamo, forse han da dire di più (i loro anni, tempi, vita) di ciò che ne vediamo.

Il sospiro ha il suo controcanto nella “carezza” di milkmo(M)on. O, meglio, nell’immagine impossibile che si produce dalla carezza che si fa alle palpebre di chi ci lascia. Quando gli si chiudono gli occhi per l’ultimo viaggio. Volto di madre accarezzato, nel notturno muto, in più canti denunciati da altrettanti intertitoli. Notturno d’immagini sole, di puro affetto senza storia né logos. E tanto assoluto (ancora, e in modo diverso da sospiro) da bastarsi, da rendere indecidibile o superflua l’inquadratura, la definizione delle sue coordinate, dei suoi dati spaziali, consegnata alla penombra. Basta quel volto, così simile a quello della luna, altrettanto algido, altrettanto isolata senz’altro nel cielo e materna nella sua espressione di stupefazione perenne («Oh!») che conforta o inquieta i suoi figli terrestri.

Sospiro entra in risonanza con l’ambiente in cui è proiettato: il sotterraneo del Museo, con le sue mura in pietra grezza, incavo dove il suono può farsi più avvolgente, domandando ascolto. E, coerentemente coll’impatto più decisamente “materico” che in milkmo(M)on, proiettato al piano superiore, nel bianco (lunare? spirituale?) in cui per contrappunto risalta l’umore notturno del lavoro.

Così considerati i lavori del dittico, il senso comune respingerebbe comunque l’idea che “intimità” e “distanza” possano darsi insieme, e troverebbe parimenti inaccettabile che una suite sia taciturna. Ma, se si sta alle regole della poesia, allora si accetta anche che il senso comune vi sia scardinato. Del resto, c’è una musicalità intrinseca allo scorrere delle immagini dei due lavori, ciascuno controcanto dell’altro: crepuscolo/notte; padre/madre; il vociare lontano, indistinto di sospiro; l’assenza di sonoro in milkmo(M)on

Sul piano sonoro non c’è parola significante: e con quali parole potrebbe mai accedersi a quei legami familiari in forma filmica, senza che ne sia violata l’intimità? Come comunicarne la complessità senza farne mera riduzione (trasumanar significar per verba/non si porìa, ecc. ecc.)?

Interessa, siffatta distanza dalla mera comunicazione, anche le figure di padre e madre. Termine scarsamente appropriato per il lavoro di Schirinzi. Non solo perché ciascuno è in penombra e flou o “ritratto”, intimamente, da parte, per magnificati che ne siano i volti. In linea, piuttosto, con un dislocarsi della figura da se stessa o in se stessa (il che, in pittura, fu soprattutto di un Bacon), e coerentemente con una ricerca sua, in modi diversi declinata nel proprio percorso, Schirinzi sembra (qui con un gesto che sa di grazia, di pudore), registrare qualcosa come uno sfigurarsi delle immagini (le proprie; o le altrui, come la Puglia assolutamente straniera de I resti di Bisanzio) nell’atto stesso di crearle. Si pensi ancora al fluttuare della luna in milkmo(m)on.

Ricordava Alberto Grifi, “L’occhio è l’evoluzione biologica di una lacrima”. Schirinzi sa, pudicamente, e crudelmente nel senso di “senza compiacimento”, da distanza siderale e intima, filmare il transitare di occhio/lacrima. E a questo, altro nome non so dare che quello di integrità espressiva.

Antonio Capocasale

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